Patrizio Bianchi
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Le persone, prima le persone (seconda parte)

Economia, Lavoro, Primo piano 9 Marzo 2015

Formazione, innovazione e ricerca

a sostegno della ristrutturazione economico-industriale

Articolo in corso di pubblicazione su “Italiani-Europei”. 

seconda parte

Il tempo stringe

Una scelta decisiva – che arriva dopo anni in cui il Paese ha disinvestito sulla formazione tecnica e professionale in un percorso a tratti miope e purtroppo coerente con l’idea che l’Italia stesse procedendo senza sosta e senza ripensamenti verso una marcata deindustrializzazione – finalizzata ad adeguare le competenze “di produzione” agendo su figure professionali le cui capacità hanno natura di interconnessione fra le diverse fasi produttive e le cui competenze – operative, critiche e relazionali – sono rilevanti per l’innovazione dei cicli produttivi. Competenze di sintesi –  alla cui formazione concorrono infatti istituti scolastici, enti di formazione, università, istituzioni locali e imprese riuniti in forma di fondazioni private – strategiche per comprendere le profonde modificazioni strutturali del sistema produttivo italiano e ritrovare le radici della crescita.

Tutti speriamo che la Buon Scuola sia il primo segno di un cambiamento effettivo di registro. Fino ad ora, infatti, il Paese non ha investito abbastanza, né in educazione, in organizzazione produttiva, né in ricerca, e non ha coltivato la capacità di trasformare le competenze. Come risultato, ha compromesso un’idea di sviluppo che si riteneva forte proprio perché consolidata sui territori. Territori oggi in crisi perché costituiti da imprese che sono riuscite a crescere e da altre che non ce l’hanno fatta. È per questo che occorre far interagire meglio capacità di competizione globale e ripensamento dei nostri territori. Muoversi  in tale direzione significa impostare una strategia di crescita coerente con Europa 2020, secondo cui “gli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, istruzione e tecnologie efficienti sotto il profilo delle risorse comporteranno vantaggi per i settori tradizionali, per le zone rurali e per le economie di servizi altamente specialistici, rafforzando la coesione economica, sociale e territoriale”. Ma bisogna già pensare oltre il vicino 2020.

Investire sul sapere, sul talento e sulla creatività è condizione necessaria affinché le idee innovative si trasformino in nuovi prodotti e servizi, immettano valori intangibili nelle produzioni esistenti e permettano di individuare ambiti per nuove produzioni e nuovi lavori, costruendo oggi educazione e formazione del nuovo secolo. Che questa sia la strada da percorrere appare ormai evidente. L’infrastruttura educativa ha la capacità di dare continuità a ciò che è stato discontinuo e che in futuro non potrà più essere tale. Tuttavia, perché l’infrastruttura possa garantire una crescita equa, fondata sui diritti delle persone di comprendere e partecipare, è necessario rafforzare la visione sistemica delle politiche e assicurare una programmazione integrata dei fondi europei, nazionali e regionali capace di incidere sulla struttura dell’economia, sulla produttività, sul capitale umano e sociale, per  tornare a crescere.

 

La dimensione territoriale del Rinascimento della manifattura

Dopo la cosiddetta deindustrializzazione che ha minato le economie occidentali, svuotandole delle produzioni manifatturiere per puntare su un’economia dei servizi – una rivoluzione che ha messo in discussione l’associazione tra la crescita di un territorio e le sua capacità di dotarsi di conoscenze e strutture produttive -, dopo la ristrutturazione a livello globale delle reti di produzione, avvenuta con l’entrata sui mercati dei paesi definiti emergenti e, infine, dopo un’iperfinanziarizzazione delle economie occidentali, che ha generato l’illusione di un mercato in cui la ricchezza è risultato di una speculazione, in piena crisi l’Europa riscopre la centralità della manifattura e, soprattutto, delle conoscenze a questa strettamente connesse. Un “rinascimento della manifattura” che finalmente torna a credere nella ricchezza del lavoro, e che ci pone di fronte a diverse domande, una delle quali prioritaria: quali azioni possono mettere in atto le istituzioni per favorire questo rinascimento, per attrarre attività produttive e quindi sostenere processi di sviluppo locale in un contesto globale?

Due sono le strategie possibili ed opposte. Per attrarre singoli impianti di produzione, occorre agire sulle condizioni di competitività statica, cioè sulla riduzione dei costi o dei vincoli di produzione. Per attrarre quelle attività che governano l’intero ciclo, bisogna invece agire sulla creazione di un contesto intelligente e competente, in cui le conoscenze non vengono solo generate ed acquisite individualmente, ma anche condivise e trasferite.

Ciò richiede un vero e proprio istitutional building, in cui la costruzione di un’infrastruttura educativa e di ricerca che agisca da esternalità positiva per la crescita di ogni singola componente di una comunità, siano persone, imprese o istituzioni, e che rafforzi quelle capacità di sistema che sostengono innovazione e sviluppo, è elemento imprescindibile. Con due punti di attenzione, il primo relativo alla riforma istituzionale in corso, il secondo – certo profondamento connesso al primo e al ruolo che le Regioni potranno svolgere a seguito del riordino  – relativo alla  dimensione territoriale delle politiche e agli interventi necessari almeno a quella parte di nord Italia più integrato con il cuore dell’Europa.  

Sviluppo economico ed evoluzione istituzionale viaggiano assieme, ma entrambe le prospettive debbono tener conto della geografia reale che oggi si sovrappone violentemente alla geografia politica che abbiamo ereditato dal passato. Bisogna infatti capire se il nuovo centralismo che viene proposto dalla cancellazione delle Province ed il sostanziale ridimensionamento delle Regioni sia adeguato alla geografia economica che emerge oggi dopo venti anni di globalizzazione, quindici di euro e sette di crisi.

 

La nuova geografia reale d’Europa

Se si prendono i dati dei redditi per abitante o si misurano gli indici di innovazione dei territori, appare evidente che negli ultimi quindici anni l’area centrale europea si è progressivamente sempre più integrata, mentre le aree periferiche sono diventate sempre più marginali. In altre parole è cresciuta la disparità interna fra le diverse aree. Del resto questo è l’evidente risultato di un’area monetaria in cui, grazie ai ridotti costi di transazione, le attività produttive tendono a specializzarsi e quindi a divenire fra loro più complementari, favorendo le aree centrali in cui i costi di trasporto e le affinità strutturali rendono ancor più conveniente il progressivo aggiustamento strutturale.

Il contemporaneo aumento dell’estensione del mercato, generato dalla globalizzazione, ha favorito inoltre una riorganizzazione produttiva rivolta ad aumentare la specializzazione relativa fra produttori fra loro strettamente interrelati. La crisi d’altra parte, riducendo le catene di subfornitura in un primo tempo estese a sud e a est dell’Europa, ha consolidato ancor più quella lunga striscia di sviluppo che va da Amburgo a Bologna, attorno alla quale si dipanano in cerchi sempre più larghi zone sempre più marginali, a cui possiamo aggiungere le aree delle capitali.

A fare le spese di tali disparities è soprattutto l’Italia, che appare essere il paese in cui le differenze interne si accentuano di più. La proposta di ricentralizzare le politiche pubbliche in materia di sostegno allo sviluppo, certamente assecondata dalle diverse performance delle Regioni, non di meno pone il problema di come si possa immaginare di svolgere dal centro una politica unitaria, se non unica, per un territorio che oggi si presenta così diverso al suo interno. O, meglio, pone il problema di come sia possibile in questa Europa immaginare che il referente unico delle politiche di sviluppo e delle politiche attive del lavoro sia un governo nazionale. Certo le Regioni hanno dato in genere mala prova delle proprie capacità, ma anche qui non bisogna generalizzare. E allora la soluzione non può che essere quella di pensare ad un federalismo asimmetrico in cui le diverse Regioni possano esercitare le loro competenze fin dove la loro azione ha dimostrato effettiva capacità di essere sostenibile nel tempo. Le semplificazioni non aiutano le riforme e le riforme, proprio perché necessarie, debbono essere commisurate alle effettive capacità di realizzazione.


(2, continua)

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